venerdì 8 aprile 2016

PARQUET COURTS - HUMAN PERFORMANCE (Rough Trade, 2016)



Texani di stanza a New York sin dagli esordi del 2013 (Light Up Gold), i Parquet Courts tornano con la terza prova sulla lunga durata, o la quarta se consideriamo Content Nausea del 2014, uscito a nome Parkay Quarts (moniker con giochino lessicale). Human Performance è il secondo lavoro in collaborazione con la Rough Trade dopo Monastic Living, Ep quasi interamente strumentale, uscito l’anno scorso. Evidente il tentativo della importante label inglese di rimettere nel proprio mirino un prodotto dalle connotazioni genuinamente Rock.  
La vicenda artistica dei Parquet Courts inizia per volontà del cantante-chitarrista Andrew Savage già noto negli ambienti Indie-Garage per l’appartenenza alla band Fergus & Geronimo (due dischi all’attivo 2011/2012). Completano la line-up Austin Brown alla seconda chitarra, Sean Heaton al basso e Max Savage alla batteria. Un classico quartetto Rock d’altri tempi. Dietro ad ogni strumento quello che ci piace di più: fisicità, sudore ed immenso rispetto per chi è venuto prima. Velvet Undergroud e Pavement i gruppi di riferimento da santificare una volta al dì per Savage e compagni. Chi ha a cuore un certo scompiglio creativo, quindi, non potrà che gioire del ritorno dei Parquet Courts, veri guastafeste Garage-Rock dell’infinito party modaiolo che ha corrotto l’anima sotterranea della Big Apple. Classifiche preordinate prima promesse (il cosiddetto hype), poi promosse dai media più conformisti di sempre con l’allontanamento graduale ma ineluttabile dalle sonorità più ruvide e sanguigne che hanno contraddistinto la New York che tutti abbiamo idolatrato. E’ in questo clima di finta e concitata modernità che hanno già abdicato band (magnifiche ed eccitanti agli esordi) come Strokes, Yeah Yeah Yeahs e Liars. Band che, spiace affermarlo, peggiorano ad ogni nuova uscita nel vano tentativo di inseguire la sensazione musicale della settimana in corso, ottenendo in cambio, di esser dimenticati in quella successiva! Sembrerebbe che la città che non dorme mai si sia presa un micidiale abbiocco e s’accontenti di una scena musicale assolutamente marginale simile, per la pochezza di contenuti, a quelle di mille altre col passato infinitamente meno glorioso. 




Sono dunque preziosi gli album come Human Performance che, badando al sodo e rinunciando a trucchi ed effetti speciali, risultano essere ostinatamente controtendenza. Si inizia l’ascolto con Dust, brano alla maniera dei Polyrock, minimalismo ritmico Post-Punk fagocitato nel finale dal rumore di fondo del traffico newyorchese. Una meraviglia per chi ha amato le derive Arty della New Wave dei primi ’80, quando la sperimentazione, quella ad altezza uomo, non prescindeva dalla godibilità dell’ascolto. Cambio di registro e chitarre jingle-jangle per Human Performance, secondo brano in scaletta, con Andrew Savage che giganteggia alla voce. I Was Just Here, è uno dei passaggi chiave del disco, pura contagiosissima schizofrenia slacker. Dentro, tutto il potenziale raggiunto dalla band. Strizzano l’occhio all’estro degli Urban Verbs e alle bizzarrie dei This Heat senza che questo pregiudichi l’originalità della proposta. Il pezzo dura due minuti scarsi e ci viene da sorridere pensando ad alcune band super recensite che s’arrovellano per intere carriere, tra brani della durata media di un quarto d’ora, fredda elettronica e campionamenti insensati, senza mai neppure sfiorare la geniale sintesi dei Parquet Courts. Proseguendo nell’ascolto di questo fantastico disco ci sembrerà di sfogliare l’album dei ricordi cui teniamo di più. Ci sono la frenesia urbana dei Talking Heads (One Man, No City), gli umori notturni di un giovanissimo Lou Reed (Steady On My Mind), la giocosità compiaciuta dei Modern Lovers (Pathos Prairie), il Punk’n’Roll depravato di Jim Carroll (Two Dead Cops) e tanto altro ancora da scoprire e riscoprire ad ogni nuovo ascolto. New York ha finalmente un’altra grande, grandissima Rock band. Era ora!

Voto: 8





Porter Stout, venerdì 08/04/2016

Nessun commento: