martedì 8 marzo 2016

EMITT RHODES - RAINBOW ENDS (2016, Omnivore)



Se il 2015 è stato l’anno dello spettacolare ritorno alla ribalta dei Sonics, questo scorcio di 2016 ci ha già infiocchettato la sorpresa: il nuovo album di Emitt Rhodes dopo 43 anni dalla sua ultima fatica discografica, Farewell to Paradise, dato alle stampe nel 1973. Non una grande annata per l’umanità, Nixon e Brežnev governavano il mondo, Andreotti l’Italia; muoiono Picasso e Neruda, nascono Salvini e la Gelmini. E’ passata una vita da allora. Questa, quindi, è la storia di un’assenza lunga quanto una vita, per certi versi simile a quella di Bill Fay o a quella, ancora più incredibile, di Sixto “Sugar Man” Rodriguez, acclamato e mitizzato a sua insaputa nel Sudafrica dell’apartheid al pari di Hendrix e Dylan ma sconosciuto o dato per morto in America e nel resto del mondo.

Per raccontarla partiamo dal 2009. A vestire i panni del fan che vuol vederci chiaro stavolta è un italiano, si chiama Cosimo Messeri, è un giovanissimo film-maker già collaboratore di Carlo Mazzacurati e Nanni Moretti. Sarà anche grazie all’ostinata determinazione di questo ragazzo che Emitt Rhodes avrà una second chance. La scintilla scatta per caso Messeri acquista per pochi spiccioli un LP in una bancarella dell’usato. Qualche ricerca sullo sconosciuto songwriter e fin da subito la consapevolezza di avere tra le mani una bella storia da mettere su pellicola. Per quale motivo si è ritirato dalle scene a soli 23 anni, è vivo? è morto? Non è poi così complicato scoprire la causa che innescò la sparizione artistica di Rhodes. I cattivi di questa storia sono i tipi della  ABC/Dunhill Records, l’etichetta discografica dell’epoca che lo vincolò ad un contratto capestro imponendogli ritmi da catena di montaggio, un LP ogni sei mesi. L’inadempienza da parte del perfezionista Rhodes, che intanto s’era dato tempi di produzione sempre più lunghi, fu inevitabile. Carriera finita tra avvocati, cause e royalties trattenute dalla label per coprire l’enormità (250,000 dollari) prevista dalle penali in contratto. Da qui in poi parte lo stalkeraggio di Messeri per ottenere il consenso e la partecipazione del disincantato e recalcitrante Rhodes alla realizzazione del film. “The One Man Beatles” racconta tutto questo, uscirà qualche tempo dopo riscuotendo interesse e riconoscimenti in importanti festival cinematografici, restituendo visibilità internazionale all’artista americano. Il titolo è mutuato dal soprannome affibbiato a Rhodes in quegli anni per la consuetudine a far tutto da solo. Produce, compone, canta, e suona tutti gli strumenti nel suo studio di registrazione assemblato nel garage di casa. Nella differenza che passa da One Man Band a One Man Beatles c’è tutto il talento cristallino di Emitt Rhodes.




Ma facciamo un’ulteriore passo indietro.

1967, esordio targato A&M dei Merry-Go-Round, la prima band importante per il diciasettenne musicista dell’Illinois. E’ un disco che non passa inosservato, Billboard inserirà il singolo Live / Time Will Show the Wiser tra i più belli dell’anno. Listen, Listen invece arriverà solo nel 1968 e chiunque abbia ascoltato questa canzone non potrà mai più dimenticare il nome di Emitt Rhodes. Una pop song perfetta che tutti assoceranno per orecchiabilità e sonorità ai successi immortali dei Fab Four. L’attività solistica durerà per i cinque anni successivi con le curatissime pubblicazioni di Emitt Rhodes (1970), anch’esso celebrato da Billboard che gli assegnerà un posto di prestigio tra i Best 100 del decennio, Mirror (1971), The American Dream (1971) e infine, come abbiamo già detto, Farewell to Paradise (1973). Una manciata di album in cui, conti da pagare alle sanguisughe della Dunhill e canzoni indimenticabili, vanno di pari passo. 'Til The Day After, You Should be Ashamed, Really Wanted You, Birthday Lady sono solo alcuni dei classici immediati che caratterizzeranno lo stile Emitt Rhodes. Qualcuno ipotizzò che dietro a questi splendori Power Pop ci fossero, sotto mentite spoglie, Paul McCartney o addirittura i Beatles al completo del dopo Let It Be!  
Ma veniamo a oggi. A conti fatti, per ultimare Rainbow Ends, Rhodes ha impiegato una decina d’anni. Anche senza il fiato sul collo di studi legali e case discografiche non sembrerebbe si sia sbattuto più di tanto per affrettare la condivisione di queste nuove canzoni con il pubblico. Il timbro vocale è ancora meraviglioso, difficile non invaghirsene, e ad ascoltarlo vengono in mente all'istante Jackson Browne, John Martyn e James Taylor. La vena compositiva, immutata, è quella dei bei tempi, come se questi 43 anni non fossero mai passati. Alle melodie leggiadre e solari, capaci di imprimersi nella memoria già dal primo ascolto, si alternano brani di grande intensità emotiva. Tra i momenti migliori da segnalare le imperdibili Dog On a Chain, This Wall Between Us e Put Some Rhythm to It. Sulla copertina del disco c’è solo lui, dietro a quello che sembra un vetro appannato, il viso ingrassato e irsuto, la smorfia immortalata, un sorriso contenuto, come ringraziasse pudicamente per quanto gli sta riaccadendo.

Impressiona, ma non sorprende, l’elenco di quanti hanno collaborato alla realizzazione dell’album. Prodotto da Chris Price, vede tra gli altri, Fernando Perdomo, Aimee Mann, Susanna Hoffs (Bangles), Roger Joseph Manning, Jr. (Jellyfish), Jason Falkner (Three O'Clock), Nels Cline (Nels Cline Trio, Wilco), Jon Brion (Fiona Apple, Robyn Hitchcock). Tanti musicisti di qualità per sostenere, mano sul cuore e rispetto infinito, questo geniale quanto dimenticato cantautore americano. Emitt Rhodes è stato un fuoriclasse e sarebbe potuto diventare una grande star ma in questa storia ad averla vinta, fino a ieri, sono stati un manipolo di avvocati. Da adesso in poi si vedrà e, per dirla alla Jake Blues, io li odio gli avvocati dell’Illinois!

PS: allo stato, su youtube, ancora non si trovano video dell'ultimo album (ndr)

Voto: 8





Porter Stout, martedì 08/03/2016 

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