domenica 11 ottobre 2015

JUDY COLLINS – A MAID OF CONSTANT SORROW



Greenwich Village, New York. Da questo quartiere di Manatthan, fra gli anni’50 e ’60, esce la meglio gioventù degli Stati Uniti: i poeti della Beat Generation (Allen Ginsberg, Jack Kerouak), sperimentatori onnivori (Frank Zappa, Andy Wharol), attori che in breve tempo conquisteranno fama mondiale (Al Pacino, Dustin Hoffman, etc.) e le avanguardie intellettuali della nuova scena folk (Bob Dylan, Joan Baez, Phil Ochs). Al Village, arriva da Seattle anche una giovane e bellissima cantante che, dopo aver concluso una formazione da pianista classica, imbraccia la chitarra e parte a cercare fortuna nella Grande Mela, con in tasca il santino di Pete Seeger. Non le ci vuole molto a farsi notare: possiede un paio di occhi blu da mozzare il fiato (è lei la Judy di Suite: Judy Blue Eyes, cantata dai CS&N) e una voce da soprano che, una volta ascoltata, non ti scordi più. Nel 1961, infatti, viene vista da un manager della Warner e messa subito sotto contratto. A Maid Of Constant Sorrow, il suo esordio datato 1961, viene oggi ripubblicato in una versione ripulita e rimasterizzata, che toglie al disco la polvere dei cinquantaquattro anni passati dalla sua uscita. La Collins, ai tempi, ancora non scriveva, ma reinterpretava pezzi altrui con straordinario trasporto. Nello specifico, la scaletta di A Maid Of Constant Sorrow è composta esclusivamente da brani folk appartenenti alla tradizione (ad eccezione di Tim Evans, canzone a firma Ewan MacColl), suonati e cantati nel classico stile delle canzoni sociali di protesta, quelle cioè che rimandano immediatamente ai primi lavori di Bob Dylan. Disco interamente acustico e dagli arrangiamenti assai scarni (ad accompagnare la Collins ci sono Fred Hellerman alla chitarra, Erik Darling al banjio e Bill Lee al basso), A Maid Of Constant Sorrow, pur mancando di una vera identità artistica (la Collins inizierà a comporre cinque anni più tardi), restituisce però all’ascoltatore, grazie al grande lavoro di pulizia dei nastri, il suono e gli umori di un’epoca, e, soprattutto, una voce modulata, intensa e dall’impossibile estensione. Nonostante la giovane età, Judy Collins era tutt’altro che acerba e sapeva perfettamente il fatto suo. Tanto che, a riascoltare questo disco, torna alla mente il talento vocale di un altro grande folk singer: Tim Buckley, uno che sapeva usare la sua estensione canora esattamente come fosse uno strumento. Non un capolavoro, ma sicuramente un interessante documento storico.

VOTO: 7





Blackswan, domenica 11/10/2015

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